Descrizione
Con la pubblicazione del sesto volume è giunta al termine l’edizione de Lo Stato di Siena antico, e moderno di Giovanni Antonio Pecci (1693-1768), fonte di rilevante importanza perla storia di Siena e del suo territorio, sollecitata e perseguita da tempo dall’Accademia Senese degli Intronati, alla quale, fra l’altro, il Pecci fu ascritto giovanissimo nel 1715 con il nome accademico di “Colorito”; e per la quale fu anche Segretario fra il 1733 e il 1737 e Archintronato nel biennio 1756-1757, rivendicandone sempre la posizione di preminenza fra i sodalizi accademici non solo cittadini.
Un’impresa editoriale corposa (3.600 carte trascritte, 196 località descritte e trattate), quella de Lo Stato di Siena curata da Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, iniziata nel 2007, che ha visto la pubblicazione del primo volume nel 2009, e che si è basata sull’autografo in undici volumi conservato all’interno del Fondo librario antico di Banca Monte dei Paschi di Siena, di fatto l’ultima stesura aggiornata e corretta dell’opera.
Va dato merito all’antica Accademia senese, al Ministero dei Beni Culturali e, per l’ultimo volume, anche alla Banca Monte dei Paschi di Siena di aver creduto a questo sostanzioso lavoro iniziato dieci anni fa.
Giovanni Antonio Pecci
(Siena, 1693 - 1768)
Negli ultimi decenni si è assistito ad una sostanziale “riscoperta” dell’opera di Giovanni Antonio Pecci, personaggio che nella Siena del secolo XVIII fu sempre considerato un erudito “contro”, spesso (se non sempre) bersagliato dall’ostilità, dalla sottovalutazione, dal discredito verso le sue opere, definite spesso con enfasi come «solite coglionerie».
Ci sarebbe da indagare su quali siano state alla fine le vere motivazioni di una polemica costantemente e da più parti aperta nei confronti dell’opera del nobile Cavaliere di Santo Stefano. C’è da domandarsi insomma se l’acredine riposta in innumerevoli precisazioni, chiose, risposte polemiche alle sue elaborazioni pubblicistiche, sia riconducibile a carenze effettive dell’opera pecciana o invece alla malcelata intolleranza di circoli locali in opposizione, o ancora ad una difficoltà generalizzata dell’erudizione senese settecentesca a recepire i più recenti approcci critico/razionalisti e i suoi metodi di lavoro, o ancora ad un più generico ostracismo di carattere più
marcatamente politico e di ceto.
Rientrerebbe in quest’ultimo contesto anche la riconosciuta insofferenza del Pecci verso i comportamenti recenti dell’antica nobiltà cittadina terriera e parassitaria di appartenenza e il suo personale e presunto schierarsi tra i ranghi di una supposta coterie repubblicana senese. Affermazione che ha suscitato nel tempo un acceso dibattito, ma che, alla luce delle sue opere più tarde, può essere di fatto smentita.
Certo è che il Pecci rappresenta nel panorama dell’erudizione senese il punto di passaggio più compiuto verso consapevoli approdi muratoriani e critico/razionalistici, impegnato com’è nel corso della sua più che corposa attività pubblicistica a rendere immediatamente evidenti le effettive e pervicaci resistenze incontrate a livello locale da un’impostazione storico-erudita votata sì all’illustrazione della patria ma con intenti nuovi, giustamente chiarificatori e demistificanti.
Pecci allora, come impostazione ed esplicitazione del suo esercizio erudito, rimane di fatto un isolato e un anticipatore nel panorama della cultura e della storiografia
cittadina nei due decenni a cavallo della metà del secolo diciottesimo. In una città «dove dovrebbero fiorire gli studi d’ogni genere [...] – come avrebbe confidato quattro anni prima della morte – , niuno niuno, né della classe nobile, né dell’altra cittadinesca, ho mai ritruovato che abbia mostrato gusto d’approfittarsi della storia e cognizione patrie, sicché ritrovandomi solo solo, mi conviene tutto copiare da me, tutto da me ricercare, e quel che è peggio niuno si cura neppure ascoltare, se non con disprezzo le memorie dei nostri antenati».
Una volta naufragato il lungimirante progetto di Neri all’inizio degli anni Quaranta del secolo XVIII di innovare il tradizionale sistema di finanziamento dello Studio senese, di romperne la sedimentata e dannosa endogamia di reclutamento del corpo docente e di costituire finalmente un circolo virtuoso fra Università, ricerca ed istituzioni, Siena dovrà attendere di fatto la seconda metà degli anni Settanta per assistere al tumultuoso ed anche per certi versi traumatico (perché forzatamente giustapposto ed in fondo non recepito localmente) ingresso della cultura illuministica nell’elaborazione storico/letteraria, pure prefigurata concretamente in certe sue problematiche e in un rinnovato metodo di lavoro storico proprio dal Pecci, quasi a dispetto del praticamente immobile e disinteressato contesto culturale cittadino.
La ricerca erudita del nobile cavaliere tende insomma, forse troppo innovativamente per Siena e sulla scorta dell’elaborazione della parte più avvertita del movimento erudito, a qualificarsi palesemente nello spazio storico e sociale.
Lo Stato di Siena antico, e moderno: la «laboriosa impresa» (1758-1768)
A voler rintracciare nel voluminoso corpus della sua opera il filo lungo di una coerente continuità non si può prescindere dalla constatazione dell’inesistenza fra gli scritti del Pecci, sia editi che inediti, di pagine che non guardino con esclusivitàal contesto senese e alla sua storia, in uno sforzo di riproposizione continua di antichità e di prestigio che va a innervare quella sorta di onda lunga variamente rivendicazionista che impronta tutta la vicenda culturale senese a partire da metà Cinquecento e dalla caduta della repubblica. Si tratta, a ben guardare nelle pieghe della storiografia e dell’agiografia locale dei secoli XVI-XVII, della rivendicazione pervicace e insistita di una specifica e lunga identità senese, reperibile fin dalle origini stesse della città e tanto caratterizzante da fissare i tratti di una vera e propria diversità.
In Pecci la riproposizione di questa, attraversata dalla rivisitazione storiografica e documentaria di ispirazione muratoriana e dalle suggestioni del nuovo razionalismo erudito, viene di fatto polemicamente e politicamente posta di fronte all’insensibilità dei nuovi dominatori, alla rassegnazione locale e ai pericoli conseguentemente indotti dalla perdita di consapevolezza della stessa identità cittadina.
Cosa distingue – sembra questa la domanda che emerge dall’intera opera del Pecci – questa città dalle altre, questo territorio dagli altri? Il passato, sicuramente, fatto di storia autorevole, di nobiltà derivante dal dominio di un vastissimo territorio, di personaggi illustri per origini e per incarichi ricoperti, di località prestigiose sparse nel territorio, di pratiche tradizionali particolari, di manifestazioni sedimentate nella memoria degli appartenenti alla comunità, ma anche la capacità e la prospettiva di un riscatto possibile e sperabile.
Pecci accoglie in pieno il messaggio che proviene dal mondo razionalistico/erudito: «L’istoria che andiamo divisando» – aveva scritto Marco Foscarin – «vuole essere comprensione e restituzione attenta e filologicamente attendibile di una realtà complessa, fatta non tanto e non solo di guerre e di trattati, ma di istituzioni, di pratica mercantile, del variare dei costumi, di scuole, di studi e di cultura, del trasformarsi delle condizioni della terra, delle popolari tradizioni, e delle minime cose che intervengono nella vita di un gruppo».
La prospettiva, lavorando criticamente sul passato e sulla tradizione non documentariamente fondata, resta in fondo nel Pecci quella di un tentativo di superamento della crisi presente, della riappropriazione di un intero patrimonio culturale e storico, ristabilendo i termini di una vitalità senese che, a dispetto dell’ignavia dominante, è insita comunque nella città e nel suo territorio. Questo alla fine il senso di «incoraggiare i senesi all’agricoltura, all’arti, al commercio» de Lo Stato e questo il significato di una così dettagliata e sparsa individuazione di risorse economiche diversificate, sulla scia delle elaborazioni della rinnovata cultura scientifica toscana settecentesca.
Lo Stato di Siena antico, e moderno costituisce allora in qualche modo una summa del lungo impegno archivistico e pubblicistico del Pecci e del suo ostinato «uso politico» della storia cittadina. L’opera costituisce indubbiamente, insieme alle precedenti Memorie storico-critiche della città di Siena, l’espressione più compiuta di questo uso. Costruire una storia della autorevolezza e della nobiltà dello Stato senese, dettagliarne l’attività, il prestigio e forse anche il primato nel panorama italiano e internazionale, è un tentativo per rivendicare di fronte ai passaggi storici e dinastici che attraversano in quegli anni il granducato di Toscana la dignità di un intero territorio e il suo essere stato – prima del deflagrare delle discordie interne e più ancora di un nuovo assetto europeo che l’ha condannato alla scomparsa – nucleo integrante di uno Stato forte e accreditato, come, se non più, di altri.Il tutto con atteggiamento laico, politicamente disincantato, scevro dalle sovrastrutture
apportate dalla tradizione e dal mito, dove allo schema del primato delle fonti, dei testimoni derivanti dalla lezione muratoriana, si aggiunge l’interesse per la conoscenza delle risorse economiche, naturali, sociali delle località dell’antico Stato, in una visione complessiva della storia che è certamente di grande modernità e che è figlia del dibattito scientifico non solo toscano che preme alle soglie e nel corso delle esperienze riformatrici oltre la metà del secolo che anticipano e accompagnano l’affermazione della cultura illuminista.
Forse l’impianto stesso dell’opera, tanto contrastata da essere costretta a restare in una dimensione inedita, mostra per intero il destino velleitario di un disegno politico di fondo dell’autore, pur in presenza dell’esplicitazione reiterata di un carico di speranze deluse di cambiamento e della rivendicazione forte, culturalmente nostalgica, di un passato glorioso di privilegi e di autorevolezza storicamente definibile e cronologicamente circoscrivibile e raccontabile della città.
La posizione di Pecci rimanda ad un contesto precipuamente culturale, attraversata però da un’acuta e irrinunciabile attenzione al presente, al destino verosimilmente senza futuro di una residua classe dirigente e alle condizioni socio/economiche in cui versa l’antico dominio.
Pecci nella sua opera, in questa più di altre, si presenta insomma come erudito coinvolto e attrezzato, quanto mai deluso e appassionatamente partecipe di una vicenda storica di un’intera città al tramonto, nel clima della morente dominazione medicea, nei dubbi e nelle speranze della transizione, infi ne nel duro impatto con i nuovi dominanti. Il riscatto possibile – questo il messaggio che sembra emergere dal complesso dell’opera – passa preliminarmente attraverso la consapevolezza in dettaglio della propria storia; quella legittima però, sfrondata di fatto e defi nitivamente da sovrastrutture non fondate su basi documentarie e razionalistiche.
È in un trend di erudizione critica estrema, di adesione quasi ossessiva al primato e all’irrinunciabilità del documento ai fi ni della storia, di laicismo fortemente connotato in senso razionalista che nascono le opere storiche di Pecci. Lo Stato di Siena antico, e moderno è anch’esso fi glio di questa impostazione. Storia fatta di documenti ma anche – attraverso il richiamo a questi e alla loro insistita trascrizione e pubblicizzazione – della volontà pervicace di Pecci di «svelare gl’equivoci, additare le parzialità, e dimostrare gl’abbagli», vale a dire smascherare miti, destrutturare tradizioni e privilegi infondati, ritornare sempre e comunque alle fonti, a una ricostruzione storica fatta di ineccepibili prove documentarie, epigrafi che, archeologiche, lapidarie, soli e sicuri testimoni della verità storica.
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